Racconti Brevi – IN MARE APERTO

IN MARE APERTO
di Antonio Capra
Le emozioni stampate sui volti delle persone che ho incrociato, mi si incollavano addosso come la patina di sudore denso e colloso in una giornata afosa.
Al loro passaggio, sembravano sputarmi in faccia le proprie angosce, gioie, incubi e desideri e più mi allontanavo, più sembrava cercassero di colpirmi, innaffiandomi con la loro merda. Sembrava dovessero vedermi indossarla, per capire se ciò che si trascinavano dentro fosse reale o meno. Ovviamente era così, io me ne ero accorto, ma non spettava a me aiutarli. E poi non mi avrebbero mai creduto, perchè c’è troppa diffidenza in giro. E troppa paura della veritá. Ogni giorno percorrevo lo stesso identico itinerario, con gli stessi personaggi, che ciclicamente sfoggiavano gli stessi vestiti, abbinati agli stessi stati d’animo. Zombie affamati di vita, in attesa di infettare l’anima di chi non fosse come loro. Spenti e rassegnati. Se tutti sono uguali, non c’è più niente di cui aver paura e le emozioni stesse non spaventano piú. Sempre che ne siano rimaste. Io per primo ho avuto paura per tanto tempo. Paura di scoprire chi fossi diventato.
Un giorno, però, qualcosa è cambiato.
Per questo mi ritrovo su questa barca. Perché tutto questo non mi apparteneva. Un giorno ero in bagno rasoio alla mano, come tutte le mattina, di tutti i miei giorni. Un lavoro stabile, una famiglia stabile, una digestione stabile, ma senza il coraggio di guardarmi dritto in faccia, perché l’unico momento in cui riuscivo davvero a giudicarmi. Ed un po’ come fanno i vampiri, evitavo specchi e sole, perché avrebbero potuto illuminare le mie bugie. Ma sapevo anche che continuare, sarebbe stato come morire lentamente e con gli occhi aperti.
Il mare aperto è sempre stato, invece, l’unico luogo dove riesco davvero a respirare, senza nessuno che cerca di marchiarti a fuoco con regole e convenzioni, senza i che problemi appesantiscano tutto ed il Tempo stesso. Che adesso, invece, scivola calmo e leggero. Il mio equatore è tutt’ora troppo lontano per poterlo raggiungere, ma ho tutto il tempo. Ho tutto il tempo.
A casa non so come l’avranno presa. Probabilmente mi avranno dato prima per disperso, poi per pazzo, finendo per morto. Ma lo sarei stato comunque, se non avessi deciso di salpare. Invece ora, in compagnia dei miei silenzi, difficili da decifrare e troppo spesso tradotti male da chi non li ha mai ascoltati davvero, ora ci sto bene. Perché so cosa rappresentano, so cosa contengono. Ci sono giorni in cui mi chiedo se partire così, sia stato troppo da vigliacchi. Probabilmente lo è stato. Abbandonare tutti certo non è un gesto ammirevole. Ma sarebbe stato troppo complesso e faticoso spiegare a tutti quello che avevo da chiarire. E se non ci sono riuscito in quarantasette anni, di certo non ci sarei riuscito in un weekend. Mi dispiace soltanto per i miei figli. La mia maggiore sconfitta è quella di non essere stato in grado di comunicare il senso di protezione che avrebbero meritato. Invece ora andranno a scuola e la gente mormorerà che sono “quelli con il padre pazzo, scappato in barca, per non tornare più“.
Mi dispiace, bambini miei, mi dispiace. Ma un padre è prima di tutto un uomo. Con le sue debolezze, che indeboliscono i propri sogni ed affaticano i desideri. A cui però io non ho mai voluto rinunciare. Forse condividerli con loro sarebbe stata una scelta migliore. Ma io a corredo ne ho solo di sbagliate. Non so tra quanto tempo arriverò sulla terra ferma. Pensandoci, non ho nemmeno pianificato una meta. L’unica cosa che so, è che non devo farmi prevaricare dalla razionalità, quando le cose inizieranno a diventare difficili. L’impulso mi porterà a rinunciare, lo so. A convincermi che sia stata l’ennesima cazzata, una follia lasciare tutto. Dovrò semplicemente essere bravo a rispondermi che, tornare, significherebbe scavarsi definitivamente la fossa. Da ragazzo sognavo avventure spericolate, donne e tramonti diversi ogni giorno. Sentieri da esplorare, città da scoprire. Poi arrivava l’altra parte di me, quella che mi è sempre stata sulle palle, a ricordarmi che per fare una cosa del genere ci volevano coraggio e molti soldi. Che io ovviamente non ho mai avuto. Ed allora via, a scivolare lungo un’apatica rassegnazione, franando poi verso una grigia quotidianità, che non mi è mai appartenuta. Fino a poco tempo fa, se risaliva a galla il mio vecchio istinto da sognatore, quasi mi vergognavo di me stesso.
“Alla tua età, pensi ancora a fare l’Indiana Jones?!” mi dicevo.
A vederla oggi, la tragedia è stata l’aver condannato per troppo tempo questa mia spensieratezza.
Poi ho incontrato Luca.
Alle medie eravamo inseparabili, facevamo praticamente tutto insieme, anche scopare. La mia prima orgia, la devo a lui. Ragazzi, che serata. E pensare che io non avevo fatto nulla, perché ce l’avevo proprio nel Dna di sognare senza agire, lasciandomi magari trascinare da qualcuno più coraggioso di me e di certo non sarei mai stato in grado di abbordare quelle due e portarmele a letto, con il mio migliore amico, la sera stessa. Quella fu anche l’ultima orgia della mia vita, perché poi ho incontrato Sofia, mia moglie. Con la quale non si può nemmeno parlare di un pompino, che subito sbuffa e ti allontana, lamentandosi della tua volgarità. Ma questa, forse, è un’altra storia.
Luca ora sta morendo. Ha una di quelle malattie che gradualmente lo renderanno un peso immobile su di un letto bagnato di piscio. Me l’ha spiegato molto meglio di cosí, in realtà, usando tanti termini tecnici che io non ho capito o forse ho solo evitato di ascoltare, dall’istante in cui ho realizzato che avesse appena firmato un contratto a tempo determinato con la vita. Guardandolo in faccia, occhio lucido e pelle secca, ho fatto fatica a collegare il ragazzo esuberante e pieno di progetti, con l’uomo fragile e rassegnato che mi stava parlando. Spezzavo i silenzi con dei lunghi sorsi di un caffè annacquato, ordinato nel bar dove avevamo deciso fermarci al volo dopo l’incontro, mentre intanto maledicevo l’istante in cui avevo scelto di deviare per Via Aurispa, piuttosto che tirar dritto per il solito Gian Galeazzo. Così non l’avrei mai incontrato, sarei salito sul tram in Ventiquattro Maggio, mi sarei eclissato per un altro giorno e per sempre. Senza danni per nessuno. Soprattutto per me.
Venti anni. Questo era il tempo trascorso dal nostro ultimo incontro. Mi chiedo se, da qualche parte in qualche grigio ufficio, ci sia un figlio di puttana davanti a un computer, che con un software ben tarato sceglie coincidenze ed imprevisti per ognuno di noi. Ci deve essere qualcuno che sceglie, perché la vita non può essere così cinica. Finiti i nostri caffè, ci salutammo abbracciandoci fortissimo. Io sapevo che non l’avrei più rivisto. Lui sapeva che avrei trovato mille scuse per non fargli visita, quando il tutto sarebbe peggiorato. Ci conoscevamo bene io e Luca. Con un sorriso accompagnato da un “beh, ci vediamo allora!“, raggiunsi la fermata del tram. Avrei dovuto abbracciarlo per più tempo. Lo realizzo solo adesso.
La giornata più impegnativa di tutti i miei ventidue anni di carriera, trascorse senza nemmeno accendere il computer. Fissando la mia ombra sul monitor, pensai a Luca, alle nostre avventure, alla vita, alla mia vita, a ciò che ero diventato ed alle letterine ai miei genitori in cui, da piccolo, raccontavo cosa mi sarebbe piaciuto diventare. Pensai alla fede che avevo perso ed al vuoto che si riempiva ogni volta che mi ritrovavo davanti un panorama nuovo. Pensai alla barca di mio padre, a quando andavamo a pescare al mare all’alba, quando ancora vivevamo a sud. Pensai a come pulire il cestino della carta, pieno del mio vomito appena espulso.
La sera non raccontai nulla a casa dell’incontro con Luca. Nemmeno un accenno a Sofia, quando mi chiese se tutto andasse bene. Andai sul divano e passai la notte ad informarmi su quanto mi sarebbe costato ristrutturare la barca di mio padre. Non potevo saperlo, ma quella sera la catena della mia ancora si era già spezzata.
Per un’intera settimana non riuscii a dormire. Le scelte difficili mi hano sempre tolto il sonno, oltre che l’appetito. Camuffai il tutto con una finta spossatezza, ma non esite nessuna malattia dovuta allo spingere dei sogni nello stomaco.
Ora invece sono qui.
Libero finalmente da ogni schema, ma con una nuova forma di bisogno. Il bisogno di ciò che ho abbandonato. E’ evidente quanto io sia la persona più infantile che conosca. Mi riappare davanti tutto il tempo sprecato a cercare pretesti per litigare con chi avevo accanto. Invece di usarlo per dir loro quanto li amassi. Penso all’energia bruciata nel cercare estranei sollievi, perchè convinto che la mia famiglia non fosse all’altezza. Stupido io a non capire che, invece, fossero semplicemente loro la mia scialuppa. Mi rendo conto di quanto sia stato egoista, troppo debole e troppo bravo a trovare scuse per sottrarmi alle cose importanti. Ero accecato dal desiderio di scappare, quando sarei potuto restare, riordinare le cose e colorare d’arcobaleno ciò che avevo ottenuto solo grazie alla fortuna: gli occhi dei miei bambini. E l’amore che non mi hanno mai negato.
“Ma che cazzo sto facendo?” Ecco la ragione, la mia miglior nemica, tornare furibonda a rovinarmi i piani senza alzare nemmeno un dito, cercando di colorarmi nuovamente di grigio. Questa volta, però, è diverso. Perchè invece di accettare sottomesso come al solito, per la prima volta in vita mia, sono dalla sua parte. E decido di assecondarla. Oggi non sarà raccontata la solita storia di un debole sconfitto. Torniamo indietro, e forse un giorno racconterò la storia di un eroe. Dovrò spiegare tante cose, certo, ma è la scelta giusta. Ho sbagliato di nuovo, ma per fortuna c’è tempo per rimediare.
Avrò tutto il tempo.
La notte si avvicina. Strano, perchè l’orologio segna soltanto le sedici. Qualcosa non va. Il tempo sta cambiando velocemente, quasi ad imitare il tornado di emozioni che mi stritolano l’anima già da un pò.
Pioggia.
Vento forte.
Mare grosso.
Acqua gelida.
Nostalgia.
Addio bambini miei, un giorno vi riabbraccerò.
Buio.
Fine.
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